mercoledì 7 novembre 2012

un culo può salvare la giornata?


E’ entrata nella sala d’aspetto del medico con la certezza di tutto il suo fascino.
Si è seduta e subito tuffata nello schermo del suo iphone bianco, oppio dei popoli.
 L’ho osservata a lungo, anche perché non avevo di meglio da fare. Una di quelle bellezze al limite della scadenza della garanzia, con i prodromi di un crollo delle guance, poteva avere forse una quarantina d’anni.
Bella, con addosso nessuna voglia di esserlo. Triste. O perlomeno non felice.
Lei non si è nemmeno accorta della mia presenza nella sala d’aspetto, come ovvio. Le donne belle vivono di sé e si bastano.
L’ho rivista all’ uscita, mentre percorreva il lungo corridoio che al piano terra conduce all’uscita della palazzina.
Un giubbetto verde con sopra una maglia in lana a collo alto , corta e senza maniche, un capo di abbigliamento senza alcun senso. Un paio di jeans  stretti , talmente stretti che non poteva altro che esserci nata dentro, come farfalla in un bozzolo.
Scarpe marroni a tacco altissimo, con suola spessa, come usa ora.
E un culo meraviglioso, davvero bello. Debordante dalla esile figura, impudente come un fiore che sboccia a dispetto dell’ambiente ostile.
Uno di quei culi belli dentro un paio di jeans fasciati ma che alla prova bikini mostrano tangibili i segni della cellulite.
Però in quel momento lì, alle sei di sera, mi è parso bellissimo.

venerdì 3 agosto 2012

Dieppe

Dieppe


giornata di pioggia sulla Manica





Rouen

Rouen




Cattedrale di Notre Dame





Pèrouges

Pèrouges








Place du Tilleul

Antico borgo medioevale , domina l'altopiano della Dombes. Si entra dalla Porte d'en Haut e  percorrendo le strette viuzze lastricate di ciotoli si entra in un luogo magico. Tutto è rigorosamente conservato e la piazza viene utilizzata come ambientazione per film in costume.






Porte d'en Haut





http://www.france-voyage.com/francia-guida/perouges-1685.htm

mercoledì 6 giugno 2012


Report You Ca**on Life.



Ventitrè

Ventitré anni di Ca**on Life
Ci imbarcammo in un tempo dimenticato
 Ripensarci e tentare di raccontare ora è come infilarsi due dita in gola per tentare di vomitare quei 23 anni di storia industriale ,  eppure così umana, della Tecnos. Pur senza arrivare a tanto sento in gola il sapore acido del rigurgito, la gola è carta vetrata.
C’era una volta….le storie per bene cominciano così, hanno una morale etica, educativa e un lieto fine.

Questa no.

Questa è una storia dolorosa di dissipazione di umane competenze , passioni, conoscenze.
E’ una storia senza vincitori e vinti e questo da solo dovrebbe dare l’idea di un colossale fallimento.
Fondamentalmente è una storia fatta di persone, perché l’impatto delle umane vicende, dei caratteri, della passione con cui si sono applicate all’azienda è di gran lunga superiore al succedersi cadenzato di Clienti,Concorrenti,Dirigenti e Commesse.

L’azienda nasce dalle costole di un gruppo di fuoriusciti della Moncalvi. E’ un dato fondamentale, questo, perché la creatività di quella azienda ebbe funzione di imprinting sulle persone arrivate dopo ed aggregate al gruppo originario dei pavesi. Ricordo perfettamente  - è il primo ricordo che risale dalla trachea -il buon Francesco Cobianchi , seduto al suo tavolo mentre, congiungendo i pollici delle mani , traccia traiettorie geometriche nel vuoto inseguendo le sue fantasie tridimensionali. Impossibile dimenticare i suoi immensi lucidi su cui riusciva a disegnare di tutto, meccanica, oleodinamica ,elettrica e calcoli vari lungo i bordi. Non erano progetti, erano storie. Il suo obiettivo non era progettare ma stupire. La funzione della macchina in sé era irrilevante, la soluzione più semplice veniva scartata a priori per lasciare spazio a qualcosa che sbalordisse. Una progettualità teatrale ed estrosa ,figlia dell’urgenza di raccogliere l’ammirazione per il suo sconfinato genio, più che asservire umilmente la funzione specifica.

Ricordo bene i giorni dei colloqui e delle interviste con Dragoni e Livio. Incontri scrupolosamente avvenuti a Trezzano S.N. perché Tecnos si sarebbe dovuta trasferire a Caronno durante la fase del mio trasferimento ed era perciò perfettamente  inutile incontrarsi a Nerviano. Così mi dissero.
E’ successo, alla fine.  23 anni dopo.

Così come ricordo bene il mio primo giorno in Tecnos ; quando  Livio mi portò a visitare per la prima volta l’officina  i primi due colleghi che incontrai e furono Barbieri e Bisi, impegnati in una furiosa lite per spartirsi la territorialità delle funzioni “ ..tu non permetterti di toccare le mie valvole sulla MIA centrale oleodinamica” e “ …allora tu non permetterti di mettere le mani nel MIO  quadro elettrico per tarare le schede delle valvole” . Una disputa che è andata avanti, quotidiana, fino al pensionamento di uno dei due, un continuo marchiare il territorio in puro stile animalesco. Dispute furiose, rusticane, all’ultimo sangue cui seguivano fasi di serena cooperazione, come se nulla fosse accaduto.
Al di là di questi rapporti conflittuali dal sapore sanguigno alla  Peppone e don Camillo, l’atmosfera in azienda era meravigliosa. E questo clima di felice aggregazione è durato a lungo, tanto che è rimasto impresso nei “ vecchi” una sorta di innamoramento per una certa idea dell’azienda, in cui lavorare era un piacere tale per cui saresti persino stato disposto a pagare, per poterlo fare.
Dove tutti erano disposti a dare una mano . Dove tutti avevano un ruolo preciso e una specifica dimensione.

Ogni volta che in officina nasceva un problema scattava una sorta di cordone sanitario di esseri umani che alla pari, senza distinzione gerarchica o di ruolo, contribuivano alla soluzione dello stesso. Arrivava la chiamata alle armi di Luciano D’Adda ( a voce, c’era un solo telefono per tutto l’ufficio tecnico ma la linea era sempre occupata, impossibile chiamare )che ti convocava in officina a prendere atto delle minchiate progettate e a cercare insieme una via per risolvere il problema. Senza alzare la voce. Senza dare colpe a nessuno. Senza processi sommari.

Gli anni 90 furono meravigliosi, lo dico senza il romanticismo smielato del ricordo di un’ Arcadia serena, pur nell’alternanza delle cicliche crisi che comportavano il succedere anni di impegno totale per  sette giorni alla settimana ad anni rilassati, come il riposo invernale succede all’operosa estate  del contadino,  nel perenne  ciclo delle stagioni.

Erano gli anni dell’evoluzione tecnologica degli strumenti di lavoro, dal tecnigrafo – con il suo corollario di matite, pennini con la china, camici bianchi e male ai polpacci- si passò ai primi sistemi di progettazione con l’ausilio del computer, dai prezzi proibitivi e dall’efficienza risibile.

Fare dei nomi è un errore, sono certo che ometterò  qualche nome importante, ma senza dubbio Cobianchi, Musazzi, Barbieri, Bisi, D’Adda furono – per carattere e competenza specifica - gli elementi di spicco di quegli anni, il motore che dava energia all’Azienda.

I primi preformatori per la fibra di vetro, il mitico Capsotec razionalizzato che doveva dare il via ad una famiglia – rivelatasi poi sterile – di prodotti scalari. Gli impianti Insotec, considerati minori , che alla fine sono quelli che nel corso degli anni hanno sempre tenuto in piedi la bottega.

La prima pressa corsa corta da 800 tonnellate con bloccaggio meccanico (autocostruiti) sugli steli, il controllo attivo del parallelismo e il sostentamento idrostatico del piano inferiore.

Per ogni commessa c’è un ricordo che dovrei citare , ricordo ancor più affettuoso per quelle meno riuscite eppure più amate e vissute dal gruppo di lavoro con empatia . Come il preformatore Rockwell.

Anni un cui nacque una tale confidenza nelle nostre potenzialità da immaginarci ( illudendoci) capaci di affrontare con successo qualsiasi tema, che si trattasse di progettare lampade ad infrarossi, forni per GMT, oppure linee complesse come furono Maersk, Lear Tamworth o Cambridge.

Venne poi la volta degli impianti per i serbatoi. Era usanza a fine anno fare una riunione informale, senza tanti proclami o discorsi, per scambiarsi gli auguri di Natale e annunciare le avventure dell’anno successivo. Quel Natale arrivò portandoci in dono un portafogli ordini completamente vuoto e parecchie preoccupazione, tanto che si decise di annullare l’incontro e i brindisi.
La sera del 23 dicembre, ultimo giorno di lavoro, il Signore degli Ubriachi, arcaica divinità che ci ha sempre protetto , ci recapitò in dono l’ordine Visteon per la costruzione di 7 impianti per serbatoi.          L’attesa botta di culo era arrivata, ancora una volta.


Con il cambio di gestione della metà del 2000 cambiò radicalmente  il clima all’interno dell’azienda. Fu una gelata improvvisa che raffreddò gli entusiasmi e riportò il lavoro al ruolo – forse doveroso – di fatica quotidiana. Era l'epoca delle distopie autodistruttive, l'azienda venne invasa da persone che avrebbero dovuto aprirci al mondo Ca**on, ma i vari personaggi da operetta si preoccuparono soltanto di rapinare tecnologia da regalare ai cinesi.

Unico lampo di luce di quegli anni funesti - impossibile dimenticare - la follia Aermacchi, con l’altalena di adrenaliche scariche di entusiasmo e la successiva fase di  penitenziale frustrazione. E’ una storia a sé, la storia di immani errori. Merita una narrazione a parte.

Sono gli anni delle fughe, della perdita emorragica di persone dotate di un bagaglio di competenze ed esperienze ,maturate nel corso degli anni ,difficilmente sostituibili. Improvvisamente le persone non contavano più, contava solo la leadership. Sono gli anni del rompete le righe, ognuno per sé, con nel cuore il rimpianto di quegli irripetibili giorni felici trasecolati nel ricordo.
Vi risparmio l’elenco di quelli che sono andati portando nel cuore un pezzetto di questa storia, vi risparmio l’elenco di quelli che –per forza o necessità- sono rimasti. Siamo noi, siamo tutti noi.
Ho scritto decine di lettere di commiato, talmente tante, talmente dolorose, che ho finito per consumare le parole di circostanza.

Vede, Signor Cannon Life, Lei aveva per le mani l’azienda perfetta. Le persone giuste con le competenze adatte a formare un laboratorio di formazione di uomini e di idee. Gente con grandi competenze, esperienza da vendere, avrebbe potuto distribuire cultura tecnica a tutte le aziende del gruppo.
Ma ciò che conta non sono le persone, non il frutto del loro lavoro. Questo lo abbiamo capito.
Ciò che importa sono i conti di fine anno, i freddi numeri con un più o un meno davanti. Beh, se c’erano numeri da verificare erano quelli dei conti correnti dei suoi dirigenti, di tutti quelli che per interesse personale, economico, di prestigio, di carriera, hanno approfittato della confusione e delle distrazioni. Era tutto alla luce del sole, eppure ha finto di non vedere nulla. Non solo, si è persino preso i gusto sadico di sbeffeggiare chi, nel disinteresse totale di chi avrebbe dovuto amministrare i suoi interessi, si è caricato un enorme fardello sulle spalle e ha provato comunque a fare qualcosa di buono, da solo, in quel che restava del suo ufficio tecnico.

A dispetto di quanto si possa pensare c’è…  c’era…una somma di competenze specifiche uniche, un bagaglio di capacità umane e professionali dal valore incalcolabile. Persone capaci di affrontare qualunque difficoltà, qualunque disciplina. Tutto è stato dissipato, come un’eredità, ciò che si era faticosamente accumulato negli anni con fatica, con sudore.

E ora. Ora che la Tecnos non c’è più. Ora che è un sogno morente nell’attesa della risurrezione in un altro nome, in un altro luogo, altra vita. Ora la storia , la nostra storia, finisce con un vuoto enorme.
Ora rimane questa lettera. Questa lettera che è un onesto falsario, perché ci illude di travalicare la distanza che divide la nostra passione dal suo interesse. Ci rimane questo incolmabile vuoto, assenza. Senso di appartenenza. Forse è quello che  manca, ora. E’ paradossale, ma l’avvertiamo tutti indistintamente.
Sarà per via della deportazione forzosa , sarà per il quotidiano condividere ufficio spazi ma non obiettivi e metodi con un’altra società ( o forse un’altra realtà), sarà per il fatto di lavorare in una società senza nome, o forse per il fatto che a distanza di  mesi non esiste nemmeno uno straccio di organigramma.

Forse dipende dal fatto che non c’è un comune sentire, o almeno il collante di un burbero capo che ci sfoghi in faccia le sue frustrazioni. Qui il capo è una entità astratta, un ectoplasma simpatico quanto l’incontro con una medusa urticante in mare. C’è, ma non c’è.
Non ci parla, anzi, per la verità non varca mai la soglia dell’ufficio. 

Non c’è un sentito comune, un vivere assieme i problemi del quotidiano. Viviamo e lavoriamo in realtà diverse. Altre priorità, altri obiettivi.
Nessuno si prende la briga di fare un punto della situazione, una valutazione analitica dello stato delle cose, dell’avanzamento lavori. Tutto procede in virtù di una misteriosa forza di inerzia, una spinta iniziale che per senso del dovere ci spinge a svolgere quelle attività quotidiane che riteniamo ci competano. Ma un giorno questa inerzia finirà e il volano rallenterà fino a fermarsi.

C’è perfino la difficoltà di immaginarsi un proprio ruolo all’interno di questa nuova realtà. C’è la netta e fastidiosa percezione di essere stati accettati, non accolti. E per dirla tutta, accettati di malavoglia.

Fa sorridere leggere sui quotidiani lo stato di avanzamento dei lavori per il superamento dell’articolo 18. Altri sono i problemi, più minimali, più banali. Si parla di massimi sistemi, ma la realtà delle altre aziende è più basica, minimale. Piccole cose, dettagli. Incapacità di coordinarsi, di avere uno straccio di obiettivo comune.

Un giorno una mente geniale ha avuto l’idea di riunire  aziende differenti. Con prodotti diversi, mercati e identità non confrontabili. Viene logico pensare ad una cabina di regia che ha pianificato con lungimiranza i passi da percorrere per giungere al punto in cui siamo. 

Troppo facile. Ma soprattutto poco italiano. L’unica cosa cui hanno pensato è ristrutturare un edificio assolutamente inadatto allo scopo e sbatterci dentro alla rinfusa le persone delle tre aziende per creare un melting pot culturale per osmosi, per induzione data dallo sfregamento dei gomiti sulle scrivanie.

Nessun ragionamento, nessuna regia, nessuna preparazione. Nemmeno la capacità, o la forza di affrontare e risolvere giorno per giorno i problemi che si affacciano. Semplice inerzia. Il volano gira ancora, la scintilla scocca, tanto basta. Domani si vedrà.

Non c’è un tavolo nemmeno per condividere i problemi che le tre realtà dovranno affrontare per unificarsi. Cose banali, come database comuni, server, numerazioni, sistemi gestionali, piccole cose.

Nessuno si preoccupa nemmeno di capire se la convivenza di persone con competenze così diverse e con problemi quotidiani diametralmente opposti crei problemi banali di logistica. Rumore, confusione, caos. Nema problema.
Lo sente, o no, l’esatto suono delle mie ragioni, lo capisce cos’è  la rinuncia al pudore ? Questa è  ancora una lettera d’amore, non di odio. Alla fine di un rapporto così bello non c’è spazio per l’odio ma rammarico, ricordo. Nostalgia.

 Io e quelli come me aspettiamolo miracoli

Ma questa ormai non è più la storia che volevo raccontare. Questa non è più la Tecnos. E anche noi, non siamo più quelli.

mercoledì 23 maggio 2012


"Il tuo Cristo è ebreo. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino.
Solo il tuo vicino è straniero" 1994, manifesto sui muri di Berlino.

martedì 22 maggio 2012

FACILI PROFEZIE  ( AVIONICHE )


E fu così che alla fine venne il giorno del giudizio. Il dies irae. Il giorno dei giorni. Il momento della verità. Le cinque della sera per il torero che scende nell’arena, il momento epico dello scontro tra Achille ed Ettore.Il  D-day di Omaha beach. Il duello titanico tra Orazi e Curiazi. La disfida di Barletta. Il titanico confronto tra Leonida  e l’esercido di Serse a Persepoli. La battaglia di Qadesh per Ramsete II. Infine venne.
Tutti ricordarono la profezia del druido Lucius Daddax, che era solito trarre vaticini dalla lettura dei fondi dei bottiglioni del barbera. Nel suo stentoreo linguaggio celtico , un pomeriggio, ebbro e posseduto dai suoi demoni si alzò e disse.” Ul dì che sa meetùm a faa i sguatàsc , aàrum da la gran tèra e cùpum tűcc i culaudaduur”. ( Verrà un giorno in cui faremo aerei incapaci di sollevarsi dalla pista di decollo e tutti i collaudatori periranno tra atroci sofferenze)
E quel giorno era venuto. Era adesso. Era oggi.
Subito il sommo sacerdote Bindus salì nell’Olimpo, verso la vetta eternamente nascosta tra le nubi ( qualcuno sostiene fossero in realtà fumi derivanti dall’uso sconsiderato di potenti stupefacenti ) e chiese agli dèi dove doveva condurre il suo popolo. Dopo quaranta giorni scese dal monte recando le tavole contenenti il concentrato della saggezza divina e disse al suo popolo: “ faremo un grande uccello con la coda innanzi, i motori contrapposti e il pilota sottosopra. Così ho detto”
Prontamente gli rispose Crivellix, il potente condottiero, in sella  al suo poderoso Katanazz, il cavallo alato :“ te tu l’uccelli ce l’hai ‘nder culo, a bischero
Ma il suo popolo nell’attesa aveva costruito un idolo da adorare, spinti dai project manager avevano costruito un aeroplano d’oro ricoperto di gemme preziose , certi di far piacere al loro dio, il Cliente.
Bindus inferocito distrusse l’idolo e invitò il suo popolo a seguirlo nella ricerca della terra promessa dove il bilancio era sempre in attivo e gli asini volavano. “ Io vado per la mia strada e chi non mi segue peggio per lui”.
Naturalmente nessuno lo seguì e di lui si persero le tracce. Si seppe poi che vagò nel deserto della sua mente per 40 lunghi anni e finì nel cimitero degli elefanti di Trezzanus.
Il druido e aruspice Lucius Daddax  prese dunque la parola e davanti al popolo riunito disse “ Ghe pensi mì, i sguatàsc al so mii cume vann faa
Prontamente l’anziano del villaggio, Sbranus, gli rispose “ Non avete capito un cazzo, noi quei cosi l’ li facevamo in Macchi quarantenni fa, eccheccazzo”. E propose di richiamare in vita l’anziano Carlus Verganicus con una seduta spiritica. Ma nemmeno gli effluvi vaginali di  una principessa vergine riuscirono a riportarlo nel mondo dei vivi.
La depressione incominciò ad serpeggiare tra le fila del popolo eletto del signore. Qualcuno parlò di arrendersi, di rinunciare. Qualcuno si mise a bere fino ad ubriacarsi. Eretici.
Alla fine cominciarono l’impresa. E con soli vent’anni  di ritardo costruirono un possente impianto in grado di costruire poderosi uccelli volanti. Ma per un piccolo e trascurabile errore di progetto dalle linee uscirono aeroplani in scala 1:12 e nessun pilota fu mai in grado di salire a bordo. E allora Slisux, il grande organizzatore della produzione, nonché puttaniere in pectore, decise che aveva lui l’uomo giusto per pilotare gli uccelli volanti miniaturizzati. E presero Manzus, l’oplita tascabile e con fatica lo calarono a bordo del velivolo. E con la perizia da lui ampiamente dimostrata nella guida del muletto, dopo aver abbattuto tutti i muri del capannone , pigiò il pulsante del seggiolino eiettabile scambiandolo per il cartellino da timbrare, e svanì nelle nuvole.
E allora, come ultima risorsa, venne coinvolta l’assistenza clienti e il nobile alchimista Paulus Da Brescia dopo mille esperimenti trasformò l’oro in ferro e Manzus in un rospo . Il un eccesso d’ira Crivellix lo decapitò. Palazzius Merlinus restò basito, prese un foglio bianco e se ne andò, oberato dal niente da fare.
L’ultima risorsa , l’uomo della provvidenza era allora Scintillus, l’uomo dallo sguardo sveglio e dagli occhi dipinti sulle palpebre chiuse. Fece uno sforzo immane. Sbadigliò. E tornò tra le braccia di Morfeo.
La storia racconta che non se ne venne mai a capo. I saggi Giocatori di Lippa e portaborse annessi  andarono per boschi e prati e ruscelli a dar mazzate ad ogni sfera e finite le palline cominciarono a colpire con veemenza i loro stessi testicoli.  E gli aerei non volarono mai. Per fortuna.