Report You Ca**on Life.
Ventitrè
Ventitré anni di Ca**on
Life
Ci imbarcammo in un tempo
dimenticato
Ripensarci e tentare di
raccontare ora è come infilarsi due dita in gola per tentare di vomitare quei 23
anni di storia industriale , eppure così
umana, della Tecnos. Pur senza arrivare a tanto sento in gola il sapore acido
del rigurgito, la gola è carta vetrata.
C’era una volta….le storie
per bene cominciano così, hanno una morale etica, educativa e un lieto fine.
Questa no.
Questa è una storia dolorosa
di dissipazione di umane competenze , passioni, conoscenze.
E’ una storia senza vincitori
e vinti e questo da solo dovrebbe dare l’idea di un colossale fallimento.
Fondamentalmente è una
storia fatta di persone, perché l’impatto delle umane vicende, dei caratteri,
della passione con cui si sono applicate all’azienda è di gran lunga superiore
al succedersi cadenzato di Clienti,Concorrenti,Dirigenti e Commesse.
L’azienda nasce dalle
costole di un gruppo di fuoriusciti della Moncalvi. E’ un dato fondamentale,
questo, perché la creatività di quella azienda ebbe funzione di imprinting
sulle persone arrivate dopo ed aggregate al gruppo originario dei pavesi.
Ricordo perfettamente - è il primo
ricordo che risale dalla trachea -il buon Francesco Cobianchi , seduto al suo
tavolo mentre, congiungendo i pollici delle mani , traccia traiettorie
geometriche nel vuoto inseguendo le sue fantasie tridimensionali. Impossibile
dimenticare i suoi immensi lucidi su cui riusciva a disegnare di tutto,
meccanica, oleodinamica ,elettrica e calcoli vari lungo i bordi. Non erano
progetti, erano storie. Il suo obiettivo non era progettare ma stupire. La
funzione della macchina in sé era irrilevante, la soluzione più semplice veniva
scartata a priori per lasciare spazio a qualcosa che sbalordisse. Una progettualità
teatrale ed estrosa ,figlia dell’urgenza di raccogliere l’ammirazione per il
suo sconfinato genio, più che asservire umilmente la funzione specifica.
Ricordo bene i giorni dei
colloqui e delle interviste con Dragoni e Livio. Incontri scrupolosamente
avvenuti a Trezzano S.N. perché Tecnos si sarebbe dovuta trasferire a Caronno
durante la fase del mio trasferimento ed era perciò perfettamente inutile incontrarsi a Nerviano. Così mi
dissero.
E’ successo, alla fine. 23 anni dopo.
Così come ricordo bene il
mio primo giorno in Tecnos ; quando Livio mi portò a visitare per la prima volta
l’officina i primi due colleghi che
incontrai e furono Barbieri e Bisi, impegnati in una furiosa lite per spartirsi
la territorialità delle funzioni “ ..tu
non permetterti di toccare le mie valvole sulla MIA centrale oleodinamica”
e “ …allora tu non permetterti di mettere
le mani nel MIO quadro elettrico per
tarare le schede delle valvole” . Una disputa che è andata avanti,
quotidiana, fino al pensionamento di uno dei due, un continuo marchiare il
territorio in puro stile animalesco. Dispute furiose, rusticane, all’ultimo
sangue cui seguivano fasi di serena cooperazione, come se nulla fosse accaduto.
Al di là di questi
rapporti conflittuali dal sapore sanguigno alla
Peppone e don Camillo, l’atmosfera in azienda era meravigliosa. E questo
clima di felice aggregazione è durato a lungo, tanto che è rimasto impresso nei
“ vecchi” una sorta di innamoramento per una certa idea dell’azienda, in cui
lavorare era un piacere tale per cui saresti persino stato disposto a pagare,
per poterlo fare.
Dove tutti erano disposti
a dare una mano . Dove tutti avevano un ruolo preciso e una specifica
dimensione.
Ogni volta che in officina
nasceva un problema scattava una sorta di cordone sanitario di esseri umani che
alla pari, senza distinzione gerarchica o di ruolo, contribuivano alla
soluzione dello stesso. Arrivava la chiamata alle armi di Luciano D’Adda ( a
voce, c’era un solo telefono per tutto l’ufficio tecnico ma la linea era sempre
occupata, impossibile chiamare )che ti convocava in officina a prendere atto
delle minchiate progettate e a cercare insieme una via per risolvere il
problema. Senza alzare la voce. Senza dare colpe a nessuno. Senza processi
sommari.
Gli anni 90 furono
meravigliosi, lo dico senza il romanticismo smielato del ricordo di un’ Arcadia
serena, pur nell’alternanza delle cicliche crisi che comportavano il succedere
anni di impegno totale per sette giorni
alla settimana ad anni rilassati, come il riposo invernale succede all’operosa
estate del contadino, nel perenne
ciclo delle stagioni.
Erano gli anni
dell’evoluzione tecnologica degli strumenti di lavoro, dal tecnigrafo – con il
suo corollario di matite, pennini con la china, camici bianchi e male ai
polpacci- si passò ai primi sistemi di progettazione con l’ausilio del
computer, dai prezzi proibitivi e dall’efficienza risibile.
Fare dei nomi è un errore,
sono certo che ometterò qualche nome
importante, ma senza dubbio Cobianchi, Musazzi, Barbieri, Bisi, D’Adda furono –
per carattere e competenza specifica - gli elementi di spicco di quegli anni,
il motore che dava energia all’Azienda.
I primi preformatori per
la fibra di vetro, il mitico Capsotec razionalizzato che doveva dare il via ad
una famiglia – rivelatasi poi sterile – di prodotti scalari. Gli impianti Insotec,
considerati minori , che alla fine sono quelli che nel corso degli anni hanno
sempre tenuto in piedi la bottega.
La prima pressa corsa
corta da 800 tonnellate con bloccaggio meccanico (autocostruiti) sugli steli,
il controllo attivo del parallelismo e il sostentamento idrostatico del piano
inferiore.
Per ogni commessa c’è un
ricordo che dovrei citare , ricordo ancor più affettuoso per quelle meno
riuscite eppure più amate e vissute dal gruppo di lavoro con empatia . Come il
preformatore Rockwell.
Anni un cui nacque una
tale confidenza nelle nostre potenzialità da immaginarci ( illudendoci) capaci
di affrontare con successo qualsiasi tema, che si trattasse di progettare
lampade ad infrarossi, forni per GMT, oppure linee complesse come furono
Maersk, Lear Tamworth o Cambridge.
Venne poi la volta degli
impianti per i serbatoi. Era usanza a fine anno fare una riunione informale,
senza tanti proclami o discorsi, per scambiarsi gli auguri di Natale e
annunciare le avventure dell’anno successivo. Quel Natale arrivò portandoci in
dono un portafogli ordini completamente vuoto e parecchie preoccupazione, tanto
che si decise di annullare l’incontro e i brindisi.
La sera del 23 dicembre,
ultimo giorno di lavoro, il Signore degli Ubriachi, arcaica divinità che ci ha
sempre protetto , ci recapitò in dono l’ordine Visteon per la costruzione di 7
impianti per serbatoi. L’attesa
botta di culo era arrivata, ancora una volta.
Con il cambio di gestione
della metà del 2000 cambiò radicalmente
il clima all’interno dell’azienda. Fu una gelata improvvisa che
raffreddò gli entusiasmi e riportò il lavoro al ruolo – forse doveroso – di
fatica quotidiana. Era l'epoca delle distopie autodistruttive, l'azienda venne invasa da persone che avrebbero dovuto aprirci al mondo Ca**on, ma i vari personaggi da operetta si preoccuparono soltanto di rapinare tecnologia da regalare ai cinesi.
Unico lampo di luce di
quegli anni funesti - impossibile dimenticare - la follia Aermacchi, con
l’altalena di adrenaliche scariche di entusiasmo e la successiva fase di penitenziale frustrazione. E’ una storia a
sé, la storia di immani errori. Merita una narrazione a parte.
Sono gli anni delle fughe,
della perdita emorragica di persone dotate di un bagaglio di competenze ed
esperienze ,maturate nel corso degli anni ,difficilmente sostituibili.
Improvvisamente le persone non contavano più, contava solo la leadership. Sono
gli anni del rompete le righe, ognuno per sé, con nel cuore il rimpianto di
quegli irripetibili giorni felici trasecolati nel ricordo.
Vi risparmio l’elenco di
quelli che sono andati portando nel cuore un pezzetto di questa storia, vi
risparmio l’elenco di quelli che –per forza o necessità- sono rimasti. Siamo
noi, siamo tutti noi.
Ho scritto decine di
lettere di commiato, talmente tante, talmente dolorose, che ho finito per
consumare le parole di circostanza.
Vede, Signor Cannon Life,
Lei aveva per le mani l’azienda perfetta. Le persone giuste con le competenze
adatte a formare un laboratorio di formazione di uomini e di idee. Gente con
grandi competenze, esperienza da vendere, avrebbe potuto distribuire cultura
tecnica a tutte le aziende del gruppo.
Ma ciò che conta non sono
le persone, non il frutto del loro lavoro. Questo lo abbiamo capito.
Ciò che importa sono i
conti di fine anno, i freddi numeri con un più o un meno davanti. Beh, se
c’erano numeri da verificare erano quelli dei conti correnti dei suoi
dirigenti, di tutti quelli che per interesse personale, economico, di
prestigio, di carriera, hanno approfittato della confusione e delle
distrazioni. Era tutto alla luce del sole, eppure ha finto di non vedere nulla.
Non solo, si è persino preso i gusto sadico di sbeffeggiare chi, nel
disinteresse totale di chi avrebbe dovuto amministrare i suoi interessi, si è
caricato un enorme fardello sulle spalle e ha provato comunque a fare qualcosa
di buono, da solo, in quel che restava del suo ufficio tecnico.
A dispetto di quanto si
possa pensare c’è… c’era…una somma di
competenze specifiche uniche, un bagaglio di capacità umane e professionali dal
valore incalcolabile. Persone capaci di affrontare qualunque difficoltà,
qualunque disciplina. Tutto è stato dissipato, come un’eredità, ciò che si era
faticosamente accumulato negli anni con fatica, con sudore.
E ora. Ora che la Tecnos
non c’è più. Ora che è un sogno morente nell’attesa della risurrezione in un
altro nome, in un altro luogo, altra vita. Ora la storia , la nostra storia,
finisce con un vuoto enorme.
Ora rimane questa lettera.
Questa lettera che è un onesto falsario, perché ci illude di travalicare la
distanza che divide la nostra passione dal suo interesse. Ci rimane questo
incolmabile vuoto, assenza. Senso di
appartenenza. Forse è quello che manca,
ora. E’ paradossale, ma l’avvertiamo tutti indistintamente.
Sarà per
via della deportazione forzosa , sarà per il quotidiano condividere ufficio
spazi ma non obiettivi e metodi con un’altra società ( o forse un’altra
realtà), sarà per il fatto di lavorare in una società senza nome, o forse per
il fatto che a distanza di mesi non
esiste nemmeno uno straccio di organigramma.
Forse
dipende dal fatto che non c’è un comune sentire, o almeno il collante di un burbero
capo che ci sfoghi in faccia le sue frustrazioni. Qui il capo è una entità
astratta, un ectoplasma simpatico quanto l’incontro con una medusa urticante in
mare. C’è, ma non c’è.
Non ci
parla, anzi, per la verità non varca mai la soglia dell’ufficio.
Non c’è un
sentito comune, un vivere assieme i problemi del quotidiano. Viviamo e
lavoriamo in realtà diverse. Altre priorità, altri obiettivi.
Nessuno si
prende la briga di fare un punto della situazione, una valutazione analitica
dello stato delle cose, dell’avanzamento lavori. Tutto procede in virtù di una
misteriosa forza di inerzia, una spinta iniziale che per senso del dovere ci
spinge a svolgere quelle attività quotidiane che riteniamo ci competano. Ma un
giorno questa inerzia finirà e il volano rallenterà fino a fermarsi.
C’è
perfino la difficoltà di immaginarsi un proprio ruolo all’interno di questa
nuova realtà. C’è la netta e fastidiosa percezione di essere stati accettati,
non accolti. E per dirla tutta, accettati di malavoglia.
Fa
sorridere leggere sui quotidiani lo stato di avanzamento dei lavori per il
superamento dell’articolo 18. Altri sono i problemi, più minimali, più banali.
Si parla di massimi sistemi, ma la realtà delle altre aziende è più basica,
minimale. Piccole cose, dettagli. Incapacità di coordinarsi, di avere uno
straccio di obiettivo comune.
Un giorno
una mente geniale ha avuto l’idea di riunire aziende differenti. Con prodotti diversi,
mercati e identità non confrontabili. Viene logico pensare ad una cabina di
regia che ha pianificato con lungimiranza i passi da percorrere per giungere al
punto in cui siamo.
Troppo
facile. Ma soprattutto poco italiano. L’unica cosa cui hanno pensato è
ristrutturare un edificio assolutamente inadatto allo scopo e sbatterci dentro
alla rinfusa le persone delle tre aziende per creare un melting pot culturale
per osmosi, per induzione data dallo sfregamento dei gomiti sulle scrivanie.
Nessun
ragionamento, nessuna regia, nessuna preparazione. Nemmeno la capacità, o la
forza di affrontare e risolvere giorno per giorno i problemi che si affacciano.
Semplice inerzia. Il volano gira ancora, la scintilla scocca, tanto basta.
Domani si vedrà.
Non c’è un
tavolo nemmeno per condividere i problemi che le tre realtà dovranno affrontare
per unificarsi. Cose banali, come database comuni, server, numerazioni, sistemi
gestionali, piccole cose.
Nessuno si
preoccupa nemmeno di capire se la convivenza di persone con competenze così
diverse e con problemi quotidiani diametralmente opposti crei problemi banali di
logistica. Rumore, confusione, caos. Nema problema.
Lo
sente, o no, l’esatto suono delle mie ragioni, lo capisce cos’è la rinuncia al pudore ? Questa è ancora una lettera d’amore, non di odio. Alla
fine di un rapporto così bello non c’è spazio per l’odio ma rammarico, ricordo.
Nostalgia.
Io e quelli come me aspettiamolo miracoli
Ma questa ormai non è più la storia che volevo raccontare. Questa non è
più la Tecnos. E anche noi, non siamo più quelli.